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Una lettera riguardo il dolore della Palestina

  • Immagine del redattore: Renato Marano
    Renato Marano
  • 30 nov 2023
  • Tempo di lettura: 5 min

29/10/2023 23:10


Caro Amico,

Ti scrivo perché il tuo star via mi dà pensiero. Perché seppur tu dica “qui tutto bene” le notizie che leggo sembrano condurre il mondo verso una fine disperata. Fine che forse doveva giungere già da tempo. Questi millenni di esistenza d’altronde non ce li siamo meritati e più seguitiamo a esistere più dimostriamo che la vita è un dono che non comprendiamo.

Le bombe non le sento, ma ne percepisco il riverbero. Non mi tange alcuna onda d’urto; ma non importa, perché l’onda d’urto è ormai il segno che è tutto finito, che è iniziato e in un attimo, in un millisecondo, è già tutto andato e ciò che è stato è stato, ciò che è rimasto è rimasto. Con una bomba tutto si risolve in un attimo di luce. E in quell’istante tutti coloro che dicono che il male giace nel buio comprendono che questa è la più grande sciocchezza del mondo e che il vero demonio giace nella luce; in quel bagliore che esplode e che è ancor più veloce del ruggito, che abbaia e poi distrugge. E quel demonio è l’uomo. L’uomo non è lupo all’uomo, l’uomo è solo demonio all’uomo se il demonio può esistere senza il divino. E Dio sono certo che non esiste, perché se esistesse sarebbe peggiore del demonio, perché sarebbe un demonio che si vanta della propria bontà e perfezione.

E i carri armati avanzano. I bambini muoiono e qui si gioca a puntare il dito. Guardiamo la cartina e puntiamo il dito. Giochiamo a tirare i dadi come se giocassimo a Risiko. Stiamo qui seduti su queste belle poltrone comode, pulite, calde. Beviamo e mangiamo il nostro cibo profumato e intanto giochiamo a giudici della vita e della morte e diciamo che “certe azioni sono imperdonabili”. E commentiamo l’orrore senza nemmeno averlo visto, ma avendone solo sentito una lontanissima parvenza. Ci sediamo, ci puliamo gli occhiali, tutti incravattati, con i nostri libroni da sapienti giudicatori e sosteniamo che chi commette certi atti è disumano. Ma sappiamo bene dentro di noi che quegli atti sono nati dalle nostre mani. Siamo andati lì fieri della nostra evoluzione, del nostro progresso e abbiamo condannato quei posti. Abbiamo messo la toga sulle nostre cravatte, sulle nostre giacche sporche di soldi guadagnati a forza di grida di gente che non aveva nemmeno la voce per sussurrare; ci siamo appuntati una bella medaglia all’onore per aver ammazzato qualche vent’enne che “minacciava la nostra democrazia” e poi con il nostro parrucchino bianco tutto pulito siamo andati dove erano quelli che pensiamo siano “i popoli inferiori” e da “popoli superiori” ci siamo chinati e gli abbiamo donato la nostra evoluzione: pulire meglio il sangue dalle nostre mani. E ci siamo fatti costruire un bel trono e ci siamo seduti come re agitando il nostro scettro. Abbiamo puntato il dito e abbiamo detto che quel bambino stava un centimetro più in là di dove gli era permesso stare. Noi, popolo superiore, abbiamo puntato il dito su gente a caso e abbiamo gettato bombe su gente che aveva l’unico torto d’esistere. Abbiamo preso l’esistenza e l’abbiamo trasformata in sadica tortura per qualche spicciolo in più. Dicevamo che ci serviva una bella cravatta nuova e così abbiamo preso ad ammazzare bambini per comprarla.

Tu sei lì, Amico mio. E vedi quel dolore a un palmo dalla tua mano e non so come fai. Qui i miei amici sono in lacrime solo a sentirne parlare confusamente e tu lo vedi nitido e lo devi vedere. Serve tanta forza, troppa forza per rimanere vivi dopo simili spettacoli. La voglia d’esistere si logora solo sentendo, solo parlando; ma vedendo, toccando, l’esistenza implode in sé stessa e con sé porta via tutto.

Mi chiedo come fai a sopravvivere. E mi dico che non so se per te è peggio vedere tutta questa sofferenza o morire seduta stante, per non vedere più tanto dolore in una vita. Per non dover più spiegare il significato della parola “libertà” a un adolescente. Io a quattordici anni di guerre ne avevo letto solo sui libri di storia e invece lì a quattordici anni di guerre ne hanno vissute quattro.

Qui ci chiudiamo in casa spaventati e scattiamo in stato di emergenza se qualche pazzo spara qualche colpo in strada gridando alla jihad. Costruiamo mitologie luttuose su qualche torre caduta. Ci sentiamo minacciati se qualcuno grida per strada. E poi diciamo di metterci nei panni di quelli che vedono la pace in qualche torre caduta, in qualche sparo, che vedono il paradiso in qualche grido per strada; perché la notte si addormentano senza sapere se finiranno per sognare così forte da non smettere più di farlo, perché quando nasce un bimbo la mamma conta i secondi perché chissà se riesce ad arrivare al minuto, perché lì quando vai a casa dell’amico ti chiedi se è ancora vivo, se la casa la troverai ancora intera e se quando te ne andrai tornerai a casa e se la tua casa ci sarà ancora e se dentro casa ci sarà ancora qualcuno, se ci sarà ancora un respiro.

E qui speculiamo ancora e riduciamo tutto a un giudizio detto da chi non sa cosa vuol dire avere la casa presa e portata via quando ancora non la si ha finita di pagare.

E allora io chiederei, Amico mio, a tutti quei vigliacchi che puntano il dito contro un russo che butta giù gli ospedali perché non lo puntano anche contro quell’israeliano che fa lo stesso; gli chiederei che dignità trovi nel considerare tragedia due torri cadute e giustizia la prigionia gratuita e torturante di 2 milioni di persone; lo prenderei e gli domanderei come fa a giudicare quelli che chiama terroristi se sono terroristi proprio a causa sua, a causa nostra.

Come si possa uccidere un bambino non lo so; ma so ancor di meno come si possa condannare un bambino a saperlo fare, a trovarlo giusto, a trovarlo naturale, e non voglio nemmeno sapere come poi si possa trovare il coraggio di giudicare il frutto di un simile insegnamento, un nostro insegnamento.

E condanniamo tutti, senza condannare noi. Ma più che in Israele la causa si trova in noi, che gli abbiamo offerto il trono su un piatto d’argento; che quel maledetto trono glielo abbiamo costruito. E poi tutta la vergogna si consuma nei moderati che si rifugiano nello scetticismo più bieco: la ponderazione. Che condannano l’estremismo, quando all’estremo non si può rispondere con il controllato, con il misurato; quando la moderazione è di casa solo dove il dolore è controllato, solo dove si può scegliere di non urlare perché nessuno obbliga a farlo. Tutta la vergogna si consuma in quella presunzione moralista di chi crede che l’estremismo sia una scelta in tutti i casi e mai una condanna. In quella presunzione di chi crede che l’estremismo sia una scelta felice nei casi in cui è una scelta.

E io ormai sento solo una musica lontana, una musica cacofonica di grida che non cessa e mi chiedo come possa io non vergognarmi a esistere quando c’è chi è condannato in quanto esiste. E mi chiedo tu come fai, caro vecchio Amico, a resistere nella tua umanità là dove l’umanità è necessaria solo per morire, là dove la sopravvivenza necessità di divenire bestia, dove la felicità necessita di gioire da questo divenire.

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