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Ci Siamo Persi l’Uomo – O Come Abbiamo Commesso il Nostro Stesso Suicidio Senza Nemmeno Accorgercene

  • Writer: Leonardo Apollonio
    Leonardo Apollonio
  • Nov 30, 2023
  • 5 min read

Abstract


L’uomo moderno è disumanizzato. Ci siamo persi, ci siamo unificati e semplificati e infine abbiamo perso ciò che era proprio dell’uomo: il pensiero, le emozioni, le sensazioni. L’uomo moderno è altro dall’idea comune di uomo. Ripercorrendo e argomentando i passaggi cruciali che ci hanno portato a dove siamo chi scrive cerca di esporre una nuova condizione umana: la persistenza dell’uomo senza la sua vera esistenza.


Il Nostro Suicidio


Dov’è finito l’uomo? Ci chiediamo tutti dov’è finito Dio, ma dov’è finito l’uomo non ce lo chiediamo mai. D’altronde sembreremmo pazzi, l’uomo per vederlo basta guardarsi nello specchio. Eppure l’uomo non esiste più. O meglio, l’uomo non ha più spazio a questo mondo. Camus diceva che bisognava immaginarsi Sisifo felice mentre spingeva il masso condannato nell’inferno, perché conscio della sua libertà, perché l’unico atto di ribellione alla nostra esistenza era quello di essere così tanto liberi che la nostra semplice esistenza era atto di ribellione. Ma ormai non siamo nemmeno più Sisifo, perché Sisifo è libero fin quando cosciente della sua condanna. Noi non più.

Noi siamo immersi in questa nostra Gestalt della produttività ormai da tanti riconosciuta, nella quale la misura di tutto e il valore d’ogni cosa è la sua produttività. Il tempo è ben speso fin quando produce. L’uomo non esiste più, l’individuo non può più esistere, giacché se l’individuo esistesse la Gestalt dovrebbe allora considerare troppe, troppissime variabili. L’uomo è così incontrollabile che la sua vera esistenza è già in sé qualcosa di incomputabile, è già in sé un atto di ribellione verso il programma sociale, verso questa Gestalt. Camus più che dare una soluzione al problema di oggi ne ha ritrovato la causa. Se la nostra stessa esistenza era un atto di ribellione allora bisognava che fosse eliminata. Come? Eliminando l’individuo. Ma come si elimina l’individuo facendolo persistere ma non più esistere? Lo si spersonalizza.

L’insieme non è somma delle singole parti, ma la sintesi delle parti. In senso Hegeliano la sintesi non è una semplice somma, ma una fusione. Allo stesso modo la sintesi di tutti gli individui non è una sterile somma di essi, ma bensì la fusione di essi, è qualcosa di altro dalla somma. La massa è l’insieme e non la somma delle parti, dei singoli. Essendo insieme delle parti e non somma, non può essere scissa, è un magma unico. Siamo un magma unico. Ecco che si elimina l’uomo: si crea un unico grande gruppo in cui l’uomo non è niente e quel poco che è, il minimo che serve per prendere parte al gruppo, è tanto semplice che l’atto di ribellione all’esistenza ormai svanisce.

Facciamo un piccolo breve riepilogo di ciò che ci ha portato all’omicidio dell’uomo: Dio è morto come disse Nietzsche, e con Dio sono morte tutte le strutture che la religione si portava dietro: una morale, un dogma, una fede, un esistenzialismo, uno scopo, delle strutture e delle sovrastrutture ben definite, solidificate. Poi c’è stato l’avvento di quella che Bauman chiamò la società liquida: la storia è percorsa da un liquefarsi di vecchie sovrastrutture sociali per la solidificazione di nuove, ma da quando le vecchie sono state liquefatte ci siamo scordati di solidificarne delle altre. Dunque senza Dio e in questa liquidità moderna ha preso il comando l’unica cosa che poteva prenderlo, l’unica cosa che aveva ancora potere, il potere più semplice, materialistico e sterile che potesse esistere: l’economia. Indistruttibile, perché distruggerla vorrebbe dire aprire le porte a una catastrofe; e difatti quando è decaduta la religione e quando è decaduta anche l’ultima nostra solidificazione l’unica cosa a rimanere in piedi come entità a cui guardare era l’economia, che, anzi, sembrava progredire a gonfie vele. Ma, come ogni monarca al comando, l’economia pose le sue regole: “serve profitto” era la regola primaria, la regola basilare di ogni tipo di economia. Dunque se serve profitto serve produttività, e questa era la seconda regola. Poi dopo le prime due leggi che hanno fondato la nostra costituzione di uomini moderni è arrivata la morale, la morale dell’economia capitalista: la competizione. La legge della giungla, quella legge morale che già nell’antica Grecia era sostenuta dai reazionari come Trasimaco: i diritti si hanno in base alla propria forza. E difatti così avvenne. Noam Chomsky ha recentemente detto una frase che difatti sintetizza questa nuova morale della forza:

I diritti vengono con il potere di farli rispettare, se non si ha quella forza non si hanno diritti.

E dunque ecco la terza regola. La cosa quindi appariva così:

 

1.      Serve profitto

2.      Serve produttività

3.      Serve competizione

 

Dunque qual era la risorsa basilare per tutto ciò, per far sì che queste tre graduali leggi umane potessero funzionare? Era il tempo. Serve la velocità, serve non sprecare tempo. La competizione la si vince in velocità di produzione, la produttività la si aumenta relativamente al tempo e il profitto è maggiore se lo si aumenta nel minor tempo possibile. Insomma bisognava andare veloci. E dunque dentro di noi è incominciato a risuonare un motto che a qualcuno di noi che ama l’animazione sicuramente suonerà molto familiare: “Chi ha tempo non perda tempo![1]. La distopia di Michael Ende, autore di Momo, si è avverata. Siamo divenuti tutti uomini grigi che corrono da una parte all’altra ad acquistare il tempo degli altri. Siamo divenuti avidi non solo di profitto, ma anche di tempo. E così siamo giunti a quattro leggi.

Non per sprofondare in estremismi politici, ma c’è qui da fare una semplice constatazione: Lenin aveva ragione quando sostenne che il capitalismo sarebbe diventato un monopolio assoluto. Ha monopolizzato l’uomo e tutto ciò che lo concerne, persino il tempo, persino la fede, persino la morale. Lo diceva in questi termini:

Il sistema dei monopoli è il passaggio del capitalismo a un ordinamento superiore nella economia[2]

Certo bisogna dirlo che Lenin lo diceva riferendosi a un monopolio molto pratico, una ripartizione del mondo e delle risorse in grandi monopoli. Ma il concetto di un capitalismo monopolistico l’aveva formulato. E la storia gli ha dato ragione a quanto pare.

Quindi il tempo ora è diventato una grande risorsa, fondamentale, perché bisogna impiegarlo in modo produttivo, rendendo tutto profitto e tutto produttività. Non c’è tempo per risposarsi, e nemmeno per pensare. La filosofia infatti sta morendo. Ora c’è il mindset che regna, che è – se così possiamo dire – la versione spicciola e più materialisticamente sterile della filosofia. Insomma l’unica filosofia che il capitalismo può tollerare. E cosa dice questo mindset? Che non c’è tempo per niente se non per mettersi e fare, produrre, andare avanti, perseverare e ottenere successo. Non c’è tempo per null’altro.

E le emozioni? I sentimenti? I pensieri? Dove sono finiti? Non c’è più tempo. E l’uomo non è più visto come qualcuno che prova emozioni, che pensa, che sente. E’ visto come qualcuno che fa e che prende, che produce e che compra, che trae profitto e investe. Eccolo l’uomo moderno.

E allora concludo con una semplice frase:

 

Ma io sono davvero un uomo nel senso moderno del termine? Sono produttivo? Sono un self-made man? Sono forse un magnate del tempo? E l’ho forse conquistata della ricchezza? O sono forse solo un uomo antico che ormai non ha più un posto? Forse sono una presenza randagia, un’esistenza labile; se sono. Sono forse solo un’emozione concentrata in una qualche ombra corporea. Ma ormai, a questo mondo, un’emozione non è più nulla. E dunque, a questo mondo, neppure io sono nulla.


[1] Mi riferisco alla trasposizione cinematografica del libro di Ende: Momo Alla Conquista del Tempo (2001), Enzo D’Alò

[2] V.I. Lenin, L’Imperialismo fase suprema del capitalismo, in Opere, vol. 22, Roma, Editori Riuniti, 1966, cap. VII, pp. 265-266

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